DOMODOSSOLA - 23-03-2020 -- Una toccante testimonianza
quella che, attraverso i social, giunge da un'infermiera ossolana che assiste gli ammalati Covid-19. Non c'è nulla da aggiungere alle sue parole scritte con l'anima, se non rimarcare l'appello col quale lei stessa conclude la lettera: restate a casa restiamo a casa se rivogliamo la nostra normalità.
"Sono infermiera nel reparto di medicina di Domodossola. O meglio, nell’ex reparto di medicina di Domodossola. Da poco più di una settimana siamo diventati reparto Covid: da noi arrivano solo persone positive al virus o con forte probabilità di esserlo. Nessuno può accedere al reparto se non chi ci lavora, nemmeno i famigliari dei pazienti: per loro c’è una breve fascia oraria giornaliera nella quale poter telefonare per avere informazioni sulle persone che non possono più né vedere né sentire. I pazienti giovani (ebbene sì, ce ne sono, il covid non è il virus dei vecchi!) possono comunicare col cellulare, ma quelli meno giovani o la cui situazione clinica li rende troppo stanchi o debilitati anche solo per usare un cellulare, devono affidare a noi l’unica forma di comunicazione e di informazione con le loro famiglie. Quando scatta “l’ora X" il telefono del reparto non smette di suonare per un istante, e se riesci a staccarti dalle camere e andare a rispondere, ti viene un nodo alla gola a sentire l'angoscia di chi è dall’altra parte della cornetta. A volte sai che la loro angoscia è normale vista la situazione, a volte sai che è giusta visto lo stato del loro caro, a volte sai che aumenterà dopo l’aggiornamento che riceveranno. E a volte hai così tanto da fare che non lo senti nemmeno il telefono, e chi è dall’altra parte aspetta a quella cornetta come aggrappato a una scialuppa, ma nessuno può rispondere se non noi, che però siamo anche gli unici che possono occuparsi dei loro cari. Che sono tanti. Troppi rispetto a quanti siamo noi.
Ogni turno sembra durare giorni, e lavoriamo così bardati che spesso entrando in reparto non ci riconosciamo l’uno con l'altro. Rimangono visibili solo gli occhi, e non capendo chi ho di fronte mi accorgo di quanto poco ci guardavamo negli occhi prima. Fino a una settimana fa i miei colleghi erano semplici colleghi, adesso li sento compagni di qualcosa che ci cambierà per sempre. A volte ho paura prima di andare al lavoro, ma quando arrivo in reparto e trovo loro, e percepisco anche la loro di paura, allora inizio a rilassarmi. Non perché io sia sadica, ma perché sento di essere parte di un gruppo, come tanti vogatori che remano tutti assieme e riescono -solo così- a far muovere la barca. Fuori da lì, invece, mi sembra spesso di remare da sola, e così la barca gira su se stessa. Fuori da lì la gente ti batte le mani, ti dice “siete degli eroi!” e ti ringrazia come se stessi salvando il mondo. Ma sapete una cosa? Noi non siamo degli eroi, e non stiamo salvando nessuno, in quanto purtroppo non esiste una cura. Noi ci prendiamo cura delle persone, che è una cosa molto importante ma molto diversa dal salvarle. Magari potessimo farlo! Noi andiamo al lavoro. Un lavoro più rischioso di alcuni, ma meno di altri. Noi sappiamo che dobbiamo stare vicini, molto vicini, a persone col virus, sappiamo che ci esponiamo al contagio e per questo ci proteggiamo con presidi che ahimè scarseggiano e che aggiungono fatica fisica a quella morale, ma che utilizziamo con consapevolezza.
Chi va a fare una passeggiata o la spesa, invece, crede spesso di essere lontano dal virus, o magari di essere abbastanza in gamba da proteggersi. Purtroppo, invece, spesso chi vi cammina accanto per strada o chi ha tossito sul pacco di pasta che state afferrando al supermercato, ha lo stesso identico virus della persona che io vedo in un letto, inerme, sotto a un casco che gli fornisce ossigeno. Lo stesso identico virus, che in alcuni mostra i suoi sintomi e in altri no, ma che vi può contagiare in ugual maniera. Io in reparto indosso una divisa che non uscirà dall’ospedale, sopra ad essa un camice idrorepellente, sul viso una mascherina, sopra alla mascherina una visiera che parte dalla fronte e arriva fin sotto al mento, in testa una cuffia, alle mani due paia di guanti sovrapposti e ai piedi dei calzari che avvolgono gli zoccoli. Tutto ciò viene in parte gettato e in parte disinfettato tra un paziente e l’altro, per evitare contaminazioni. E nonostante io sia vestita così, non mi sento protetta al 100%, ma cerco di non pensarci o dovrei cambiare lavoro, e non voglio farlo. E voi, vi sentite davvero protetti? Siete sicuri di non venir contagiati solo perché mantenete 1 metro di distanza dagli altri o indossate una mascherina? Se così fosse, saremmo arrivati alle odierne cifre di contagi? Per una persona che si protegge adeguatamente, tantissime altre non lo fanno, e basterebbe che non lo facesse anche solo una per far proseguire i contagi. E anche se voi foste quell'unica persona che si protegge adeguatamente, il vostro rischio non sarebbe mai a zero. E se vedeste quello che vedo io in corsia, vi assicuro che capireste che non vale la pena correre nemmeno l'1% di quel rischio, ve lo assicuro.
Sapete qual è l’unico modo per proteggersi? Stare a casa. Non c’è nessun altro modo.
Io non sono un eroe, io mi prendo cura del risultato delle vostre azioni quotidiane. Io ne vedo il prodotto, ma chi fa davvero la differenza non sono io, siete voi.
Non morirete per mancanza di verdura o frutta fresca, e chiunque sta leggendo queste righe è in grado di fare la spesa online per sé o per i propri cari.
Se anche voi avete voglia di dare un abbraccio vero o di fare una passeggiata in un prato quanta ne ho io, e soprattutto se avete voglia di vivere, state a casa, e abbiate pazienza. Perché il sacrificio che fate oggi sarà la vostra gioia tra qualche tempo.
Vorrei concludere dicendo che andrà tutto bene, ma non posso dirlo. Posso solo sperarlo. Come andrà lo decide ciascuno di noi, ogni giorno, con le proprie azioni".


